Spunti di riflessione
In molti ci domandiamo come vivere questo tempo, come affrontarne la drammaticità, i rischi, le privazioni a cui ci obbliga. Ci chiediamo come attingere dalla fede motivi per lottare, per credere, per vivere ora che ci è stata tolta l’Eucarestia. Internet ci offre innumerevoli opportunità per assistere a celebrazioni, dire rosari o fare altre pratiche religiose. Forse, però, non siamo chiamati unicamente a cercare di sostituire ciò a cui dolorosamente dobbiamo rinunciare. Questo tempo è tempo di emergenza e contiene in sé una chiamata e una sfida, è tempo che interpella ed esige da noi la capacità di cogliere in quanto sta avvenendo uno stimolo e un approfondimento della nostra fede. Questa sfida porta innanzitutto il nome di “assenza”: contemporaneamente alla sospensione delle celebrazioni eucaristiche ci sono venuti a mancare non solo gli abbracci, ma anche gli elementi strutturanti la nostra vita, quali lo scandire della settimana in giornate lavorative e di riposo, l’uscire di casa e il rientrarvi. Non c’è più sicurezza relativamente al benessere fisico: percepiamo il virus come un essere minaccioso, che subdolamente s’insinua nella nostra persona senza permetterci nessun controllo. Vengono meno i momenti sereni, soppiantati dal panico, dalla paura, dalla noia e quelle qui elencate sono solo alcune delle mancanze che dobbiamo subire in questi tempi. Noi, figli del XX o del XXI secolo, abituati ad avere tutto, a gratificare bisogni e voglie, ci ritroviamo come il popolo d’Israele nel deserto. Rimpiangendo quanto ci manca, rischiamo tuttavia di non cogliere la possibilità che ci viene data di interiorizzare la nostra fede, di renderla più solida, più vera, meno rituale, più profonda e – appunto – interiore. Questo non significa sottovalutare l’importanza della celebrazione eucaristica. L’Eucarestia – lo sappiamo – è “Fonte e culmine della vita cristiana” ma, come è stato scritto di recente, il vertice deve avere alla base qualcosa di solido e questo “qualcosa” è, in primo luogo, una relazione personale e profonda con il Signore Gesù. Interiorizzare, infatti, significa proprio questo: passare da una religiosità superficiale, epidermica, sentimentale o rituale a una fede profonda, basata su una relazione, sull’incontro con Colui “da cui ci sappiamo amati”, come direbbe Teresa d’Avila. Possiamo allora pensare a questo tempo come a un’occasione che ci viene offerta per approfondire – attraverso il silenzio, la lettura della Parola che ogni giorno la Chiesa ci propone, l’amore fraterno, l’esercizio dell’umiltà – il nostro legame con il Signore della vita. Anche noi, come Israele, stiamo attraversando il deserto, ma anche per noi è possibile raggiungere la terra promessa dell’Unico capace di dare senso, di rispondere alle nostre inquiete domande. La sua Parola, infatti, fa vivere, fa entrare nella dinamicità dell’esistenza per scoprire modi diversi e inattesi di affrontarla. Essa ci dilata interiormente, ci rende consapevoli delle sorgenti nascoste nella nostra interiorità, di quell’acqua che “zampilla per la vita eterna” – come dice Gesù alla samaritana – ed estingue ogni nostra sete. L’abbandono della fede e il passaggio ad altre religioni avvenuto in questi anni da parte di molti ci interpella rispetto alla possibilità di aver trasmesso una fede solo di superficie, ma ci orienta anche verso un approfondimento della nostra adesione a Cristo. Possiamo riconoscerlo come Colui che desidera donarsi a noi in una comunione intima e totale, come chi si fa sempre conoscere e trovare da coloro che lo cercano? Questo tempo non è, però, unicamente tempo di assenza, ma è anche tempo di domande, soprattutto di “una” domanda: “Perché tutte queste morti?”. Un interrogativo che si declina in modi diversi: “Che senso ha tutto questo?”, “Perché tante morti in solitudine, senza la presenza delle persone più intime?”, “Perché privare i parenti della possibilità di accompagnare il loro caro nel suo ultimo viaggio?”. La fede non ci offre risposte automatiche e preconfezionate. Ciò di cui siamo certi è che questo dolore non è volontà di Dio, il quale tuttavia è presente in tutto questo soffrire. Presente come luce che illumina la sofferenza di chi ha perso qualcuno di caro, come speranza che dà senso alla nostra esistenza. Alla fine di questa quaresima contempleremo, infatti, il mistero dell’assenza che Dio stesso ha attraversato: l’assenza della voce consolante del Padre nel Getsemani – come, invece, era avvenuto sul Tabor - l’assenza vissuta dal Figlio nella sua agonia e nella morte. Una duplice assenza che tuttavia ci apre alla vita. Solo la risurrezione di Cristo permette di dare un senso a tutti i nostri drammatici interrogativi e di credere che la morte – anche la morte di tutti coloro che sono deceduti a causa del coronavirus – non è l’ultima parola pronunciata sulla nostra esistenza. In questo tempo in cui non possiamo sfuggire alla drammaticità e al dolore siamo forse invitati a riscoprire – paradossalmente, di quella paradossalità che caratterizza il cristianesimo - il valore della vita: la vita che zampilla dal vangelo, se letto e praticato e che, pur passando attraverso la morte, si apre sull’indicibile felicità di un orizzonte eterno.
Sorelle della trasfigurazione, Vercelli